La necessità che l’uomo avverte del rapporto con soggetti altri e analoghi a lui si pone in forza della trascendentalità che in essenza lo definisce come un centro illimitato di intenzionalità. Se non fosse un centro siffatto, egli non dovrebbe nemmeno sottostare a quella necessità. E invece, proprio perché il soggetto umano è un illimitato – per quanto potenziale – apparire dell’essere, proprio per questo egli non può sopportare che siano esclusivamente il finito e il limitato ad apparire in lui o innanzi a lui. È da questa necessità dell’incontro con altri soggetti che l’uomo, peraltro, ricava i suoi piaceri più grandi. E pertanto in essa si inscrivono le storie e le sorti dei suoi desideri più importanti. Tali sorti si decidono nel potere o nella capacità dell’essere umano di lasciar venire innanzi, come cosa che appare, quel che – nella sua riconosciuta verità – può fare altrettanto, e facendo altrettanto lascia che l’umano riconoscente si faccia presente ed appaia essendo a sua volta riconosciuto. Così, se la soddisfazione del desiderio umano trova la sua possibilità nel rendersi presenti alla soggettività di quegli speciali essenti che sono le altre soggettività, il trascendentale che dice il corretto significato dell’esser-presenti di tutti gli essenti mostra di stare a capo della stessa idea di appagamento o felicità coltivata dall’etica del riconoscimento reciproco. Come enti che pensano l’infinito ma possono saperlo solo finitamente, riusciamo a non oltrepassare il limite della contraddizione sul quale viviamo soltanto se e soltanto in quanto l’infinito si rende per noi sempre più presente. In questa doppia disposizione – del pensiero all’infinito e dell’infinito al pensiero – si decide il senso autentico della nostra umanità e della nostra trascendentalità.
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