Ha senso parlare di una «religiosità» costitutiva dell’uomo? Non è forse vero che ogni singolo individuo è strutturalmente «aperto» a un «orizzonte ultimo di senso» che, nel corso della storia, è stato definito in guise diverse: Divino, Eterno, Trascendenza, Bene? Le religioni storiche con i loro messaggi soterico-redentivi non sono, al pari delle utopie sociali con i loro ideali di giustizia, tentativi storicamente e culturalmente determinati di dar corpo e figura a tale esperienza del Divino, dell’Eterno, della Trascendenza, del Bene? E non è proprio alla luce di tale «orizzonte ultimo di senso» che la realtà naturale e umana, così come la conosciamo, ci appare tragicamente segnata da una negatività radicale, da un «male metafisico» irredimibile per buona volontà umana, di cui i singoli mali fisici, morali, sociali, psico-esistenziali non sono che la concreta manifestazione? Certo è che il riconoscimento della costitutività di una «dimensione religiosa» dello spirito umano potrebbe favorire non solo un confronto più proficuo tra credenti e non-credenti impegnati nella lotta per una società più giusta e più solidale, ma altresì un dialogo autentico tra le religioni universali, di cui è necessario disinnescare le potenzialità aggressive e distruttive connesse alla pretesa «assolutistica», da loro avanzata, di possedere l’unica, vera rivelazione di Dio. Le religioni sono, infatti, fenomeni profondamente ambigui, soprattutto laddove non accettano di riconoscere la prospetticità della loro verità (il fatto, cioè, che la loro rispettiva immagine di Dio è solo una «traccia» o una «cifra» della Trascendenza) e non operano decisamente in controtendenza rispetto alla logica crudele, impietosa ed egoistica del mondo.
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