Un “multiciarliero” io narrante, impersonato da una giovane donna che si aggira per vie luoghi e interni di Milano, mette in scena un doppio cappio amoroso – della memoria e del presente – ambedue giocati “sottotraccia” nella tramatura di una storia difficile da scrivere e da vivere.
La giovane donna che, in una delle immagini più suggestive del romanzo, sboccia con prepotenza da un abito rosso Marylin, insegue il progetto di riduzione a centimetri due della distanza tra il parlare e il sentire. Considera esistenti, reali, infatti, solo le sensazioni… o al più le immagini delle vie di Milano, o del “canapino”, oggetto d’arredamento ricorrente, in bilico tra metafora e realtà. E lo fa inventando una scrittura che può provocare qualche spaesamento nel lettore non smaliziato, costretto com’è a cercare un “suo” ritmo in una prosa quasi del tutto priva di punteggiatura.
Eppure, il romanzo è una macchina narrativa relativamente “semplice”, che si fa e si disfa in itinere, ed è raccontato sul doppio registro del tempo passato (buffo e capriccioso) e del tempo presente (ossessivo e depauperante), con una conclusione coniugata al futuro, a strizzare l’occhio all’esile speranza. E, se pur non trapelasse l’ambizione dell’autrice d’inseguire la trasformazione delle forme d’amore, il testo imporrebbe comunque al lettore la vertigine di una prosa raffinata e modernissima.
È consigliata la lettura condivisa e ad alta voce.
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